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Sa die de sa Sardigna

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di Alessandra Rosa

Lo storico Girolamo Sotgiu ricorda in un suo saggio dedicato all’età dei Savoia in Sardegna ( si veda l’enciclopedia La Sardegna a cura di Manlio Brigaglia) ciò che le cronache del tempo raccontano di quel 28 aprile 1794, giorno che oggi ricordiamo come Sa die de sa Sardigna.

Verso mezzogiorno nella città di Cagliari, così riporta Sotgiu, « furono rinforzati i corpi di guardia a tutte le porte, tanto del Castello, tanto della Marina» per ordine del Viceré Balbiano. Poco più tardi, « sull’ora all’incirca, quando la maggiorparte del popolo è ritirata in casa e a pranzo, fu spedito un numeroso picchetto di soldati» per arrestare alcuni importanti personaggi cagliaritani: l’avvocato Vincenzo Cabras, l’avvocato Bernardo Pintor e suo fratello Efisio, tutti attivi nella scena politica cittadina e provenienti dal quartiere di Stampace, attraversato in quegli anni da fermenti culturali e politici riformatori in parte influenzati dalle idee rivoluzionarie che stavano scuotendo l’Europa in quell’ultimo scorcio del 1700.

Furono questi arresti clamorosi a scatenare l’incendio. Per primo insorse il quartiere di Stampace, a seguire il tumulto si propagò nei quartieri di Villanova e di Marina. La folla degli insorti, dopo aver forzato il cordone difensivo dei soldati, al prezzo di alcuni morti dall’una parte e dall’altra, riuscì a raggiungere il quartiere di Castello, fino a “conquistare” il Palazzo del Viceré.

Le cronache di quel giorno, attraverso Sotgiu, ci tramandano come la folla, raggiunto il cuore del potere, (per altro dopo avere incontrato poca resistenza da parte dei soldati che presidiavano il quartiere e lo stesso Palazzo Viceregio), in parte placata dal risultato vincente della sua “escalation”, si fosse lasciata andare a scene di giubilo ed a manifestazioni di fratellanza ed affetto che coinvolsero sia i contadini che i soldati.

 

LO SCOMMIATO

Una delegazione di cittadini si presentò allora dal Viceré e dopo averlo rassicurato sulla sua sorte chiese a nome di tutto il popolo lo “scommiato”, ovvero l’allontanamento dall’Isola di tutti i Piemontesi ivi impiegati, compreso lo stesso Viceré, esclusi l’arcivescovo di Cagliari e gli altri prelati.

Nove giorni dopo, il 7 maggio 1794, ricorda ancora Sotgiu, «514 tra Piemontesi, Savoiardi e Nizzardi, furono costretti ad abbandonare l’Isola».

 

UN PASSO INDIETRO

Per capire gli avvenimenti di quel 28 aprile, bisogna fare un piccolo passo indietro. Una volta entrata a far parte dei domini sabaudi nel 1720, dopo che le guerre di successione avevano decretato la sconfitta della Spagna che fino ad allora ne aveva tenuto il possesso, la Sardegna non mutò il suo assetto interno. I Piemontesi avevano infatti lasciato intatte le antiche istituzioni del Regnum Sardiniae: gli Stamenti, ossia gli antichi parlamenti suddivisi in tre bracci, militare, ecclesiastico e reale, la Reale Udienza, supremo tribunale e lo stesso Viceré.

Con queste istituzioni, l’Isola continuò a mantenere la propria “autonomia”, da intendersi non nel significato contemporaneo del termine ma nel concetto così elaborato da Italo Birocchi:«autonomia, in senso antico significava libertà di vivere secondo le proprie istituzioni, di solito accreditate di relativa stabilità nel tempo, perché in parte derivanti da patti, in parte forgiate dalla consuetudine e perciò in qualche modo ritenute aderenti al corpo sociale».

È a partire da questo concetto di autonomia che si possono leggere gli avvenimenti del 1794 che scaturiscono dal rapporto tra Stamenti sardi e sovrano piemontese che si era venuto a creare a partire dall’inizio della dominazione sabauda. Da quando gli Stamenti avevano cominciato a funzionare, nel XIV secolo, il rapporto tra essi e il sovrano si reggeva su un impegno reciproco: gli Stamenti avrebbero dato alla Corona il sostegno economico tramite la concessione del donativo, mentre il sovrano dal canto suo si impegnava a rispettare le prerogative del Parlamento sardo e a garantirne la convocazione per le questioni importanti del Regno. Questo delicato rapporto si era incrinato durante la dominazione sabauda, dal momento che i sovrani torinesi non avevano mantenuto la prassi di riunire periodicamente gli Stamenti che dopo il 1727 videro rimandata la loro convocazione a data da destinarsi.

Questa situazione spinse i membri del Parlamento sardo a discutere sulla necessità che venissero rispettate le sue prerogative e così, poco prima del 28 aprile 1794, venne inviata al sovrano una petizione in 5 punti, nella quale gli Stamenti chiedevano al re la convocazione periodica dell’assemblea; la conferma di tutte le leggi, le consuetudini e i privilegi del Regno; l’ammissione dei Sardi agli impieghi pubblici, fino a quel momento monopolizzati dai piemontesi; l’elezione di un Consiglio di Stato e la costituzione a Torino di un ministero specifico per le questioni sarde.

Da queste richieste non emerge tanto una volontà di rottura con il sovrano e con il Piemonte, come a volte si tende a pensare ma una richiesta, magari anche animata da un moto d’orgoglio, di rispetto della tradizione e delle istituzioni che rappresentavano l’Isola.

 

Questo emerge anche dal cosiddetto Manifesto giustificativo che i sardi, dopo il moto del 28 aprile inviarono al re Vittorio Amedeo III, nel quale si legge una profferta di fedeltà «immutabile» al sovrano e l’affermazione che mai il popolo sardo aveva inteso venire meno al patto di fedeltà con lui, nonostante la “cacciata” dei Piemontesi ( che pertanto non ci misero tanto tempo a ritornare sull’Isola). Un moto di orgoglio ben strano e molto fugace, segno che forse i sardi di allora ben sapevano che rompendo totalmente con il Piemonte, si sarebbero forse condannati alla deriva. Così, sebbene qualche anno dopo la Rivoluzione francese del 1789, della quale giunsero gli echi anche in Sardegna, per lo meno tra le classi alfabetizzate, ciò che è successo il 28 aprile del 1794 a Cagliari non ha nulla della forza innovatrice della Rivoluzione che aprì le porte della contemporaneità. Sarebbe dunque auspicabile non mitizzare troppo questa data nel tentativo di dare ai sardi di allora dei falsi connotati e ai sardi di oggi un finto motivo di orgoglio.

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Commenti (1)

  1. Ciao Alessandra, complimenti per l’articolo. Lo trovo molto esaustivo. Tanti cari saluti e a presto 😉

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