Inveritas Project: Intervista all’antropologo Marcello Carlotti
di 21 Ottobre 2014 10:26 Letto 3.843 volte2
Domenica 19 ottobre 2014 è stato presentato, nella sezione Flash Forward di “Mitzas – sorgenti di cambiamento” (qui il video, a partire da 1.16′.10”) , il progetto Inveritas già presentato a Serramanna durante l’ultima edizione de “Sa Passillada” (clicca qui per il resoconto) che, unendo antropologia visuale e consulenza manageriale, punta a creare valore, per le imprese e le comunità, partendo dai valori. Per l’occasione Fabrizio Palazzari ha intervistato l’antropologo Marcello Carlotti, partner del progetto.
Marcello, innanzitutto grazie per l’intervista. Nell’arco della tua carriera accademica e professionale hai seguito un percorso che ti ha portato a coniugare antropologia e documentarismo. Come si scopre di voler diventare antropologo-documentarista?
Direi che si scopre il bisogno di dover mettere assieme varie passioni con varie necessità espressive. Normalmente l’antropologia si è sviluppata ed è cresciuta attraverso il sistema testuale che, nella vulgata, era muoversi in territori lontani, portarsi magari dietro una macchina fotografica, scattare qualche foto, ma soprattutto dedicarsi a raccogliere delle impressioni. Poi, come per tutto, c’è stata un’evoluzione di natura tecnica e tecnologica. Con il digitale i costi sono implosi e fare antropologia visuale è diventato molto più semplice.
Ovviamente riuscire a montare direttamente, attraverso dei programmi, quelle interpretazioni delle persone sul loro mondo, magari stimolate già dalla tua sola presenza o dalla presenza che si unisce alla curiosità e alla domanda, e trasformarli in protagonisti del loro mondo e già di per sé straordinario. Se poi aggiungiamo il poter poi lavorare a casa, non tanto su appunti scritti ma addirittura sulle immagini, e vedere la sorpresa delle persone che si rivedono e che quindi hanno uno strumento in più per la costruzione del loro sé autobiografico e culturale, e anche del loro sé stessi come auto-opinion leader, secondo me non vi è dubbio che questo sia un mezzo molto più efficace e molto più interessante dell’uso della sola penna.
L’utilizzo dello strumento digitale è sicuramente molto più efficace e interessante rispetto all’uso della sola penna, però è anche molto più complesso perché le variabili in gioco sono tante, ad iniziare dai filtri tra te e il soggetto. Non c’è solo, infatti, il filtro nella scelta della composizione fotografica, nella scelta delle domande – quando si tratta di intervista – o nella scelta di dove poggiare lo sguardo o di che ottica utilizzare e con quale tipo di apertura del diaframma, a che ora del giorno, con che suoni di sottofondo e con quali fondali audio in aggiunta. Non solo c’è tutto questo, c’e poi anche il montaggio dove, con la tecnologia attuale, si potrebbero per esempio fare due domande, incrociare le risposte e far dire alla persona esattamente il contrario di quello che pensa. Quindi, tenuto presente il controllo di tutte queste variabili, cos’è che fa di un documentario antropologico un “vero” documentario antropologico?
A mio giudizio la fiducia, che è una moneta che sta cadendo in disuso al pari della credibilità. Però la fiducia paga perché alla fine è attraverso il meccanismo congiunto di credibilità e fiducia che tocchi le corde della sincerità.
Quando fai un documentario non hai a che fare con degli attori, che si muovono secondo un copione predeterminato e che devono recitare, interpretare e ripetere la stessa scena anche cinquanta, sessanta, cento volte. Tu hai a che fare con delle persone normali e che forse, sino a quel momento, non hanno mai parlato di fronte a una telecamera o che non hanno mai avuto l’occasione di rispondere o di porsi loro stessi delle domande sul loro mondo.
E’ solo se riesci a costruire un meccanismo di credibilità e fiducia che le porti ad aprirsi e a scoprire anche attraverso di te. Ecco dove tu diventi lo strumento. Attraverso di te, il tuo lavoro, la tua macchina le porti a scoprirsi e a esplorare delle zone del loro pensiero e del loro animo, a volte del loro emotivo, che loro normalmente non avrebbero aperto.
Quindi, quello del filtro, è uno strumento a doppio taglio perché devi essere due volte filtro: verso l’esterno e verso l’interno. Verso l’esterno e l’interno delle persone con cui entri in dialogo e a volte in dialettica. Ma anche verso l’interno e verso l’esterno di te stesso. E’ solo creando questo meccanismo complessissimo di fiducia, emozione, empatia, curiosità e auto-curiosità che riesci ad arrivare fino all’abbattimento di tutte le maschere che ci costruiamo e a catturare quell’attimo in cui una persona è completamente sincera.
Queste tensione continua, che traspare in maniera molto netta dal modo in cui descrivi e racconti il tuo lavoro, nella pratica si è sposata con il Progetto Inveritas che si articola proprio intorno al documentario antropologico e ai principi della verità, della sincerità e dell’autenticità. Qual è la relazione tra il documentario antropologico e questo progetto?
Innanzitutto c’è la tensione etica perché tutto sommato, nonostante l’esperienza accademica abbia fatto di tutto per scoraggiarmi, sono sempre più convinto che, per quanto in Italia non esista la professione di antropologo, l’antropologia sia utile. Permette, infatti, di mettere in crisi dei luoghi comuni, delle visioni del mondo che sono diventate una nostra sottopelle, e ci permette di fare critica culturale e di renderci conto dell’arbitrarietà o, come diceva Wittgenstein, che dietro ogni cosa ovvia c’è sempre qualcosa di interessante da de-costruire.
Dall’altra parte c’è l’amore verso la terra nativa, che è un’isola tanto bella quanto disperata. Allora, quello che io mi son posto, sia da accademico e quindi da antropologo, sia da individuo, era il problema di darmi una connotazione, una posizione, una credibilità per potermi muovere e fare qualcosa. Per questo ho pensato di creare una ditta che si occupasse di comunicazione culturale e che fosse in grado di stare sul mercato con un progetto che si potesse tradurre in un prodotto appetibile e credibile che è quello poi nato dall’ibridazione dell’antropologia visuale con la consulenza manageriale.
Uno dei primi documentari del Progetto Inveritas ha riguardato Serramanna, paese dove hai vissuto sino all’età di diciotto anni e che hai poi lasciato per seguire un tuo percorso accademico e professionale. Che emozioni hai provato quando ti sei ritrovato a filmare luoghi e vite già conosciute in passato e cosa ti ha spinto a farlo?
Ho provato la stessa amara tristezza che mi ha portato poi ad andarmene e un grande dispiacere nel vedere un paese che poi è una metafora della Sardegna, dell’Italia e del mondo Occidentale: si poteva avere con poco tutto e invece si è deciso, per avere un tutto non definito, di perdere anche il poco che si aveva. Quando si arriva a Serramanna dalla SS131 il primo elemento imponente che si vede da lontano è il fungo, ovvero il deposito dell’acqua. Pochi secondi dopo, si stagliano tre cose all’orizzonte: il campanile, il secondo fungo e, soprattutto, un’imponente cantina che è lì, ferma. E tuttora, anche se chiusa da oltre circa venticinque anni, è la più grande cantina sociale d’Italia. Chiusa. E io credo che questa immagine dica tutto.
E allora più che emozione è stata una tensione etica che mi ha spinto a fare il documentario. Ho trovato un partner che ha creduto nel progetto e l’ha voluto sostenere e ci siamo dati un obiettivo: quello di creare uno stimolo, un pungolo per risvegliare non l’orgoglio, ma la dignità. Anche perché oggi a Serramanna, nonostante tutto, ci sono delle realtà interessanti che sono leader nei loro settori e che vengono guardate con un occhio di interesse, se non addirittura di ammirazione, a livello regionale, nazionale o, addirittura, internazionale.
La tua storia è rappresentativa di quella di tantissimi altri conterranei che hanno scoperto e vissuto l’estero come opportunità, andando a studiare e lavorare in Europa e nel Mondo con la convinzione che, un giorno, la Sardegna sarebbe poi stata in grado di valorizzare quelle competenze e quelle esperienze. Quanto, secondo te, il percorso imprenditoriale e di ritorno che hai intrapreso può oggi essere considerato rappresentativo di tanti altri percorsi simili e dov’è la sfida?
Andare a studiare fuori è fondamentale per allargare i propri orizzonti. Le piante che cosa fanno? Hanno le radici confitte nel suolo, vivono così. Ma allo stesso tempo, almeno gli alberi di una certa importanza, devono tirare su un bel tronco e cominciare ad aprire i rami e abbracciare più sole che possono. Il periodo di studio all’estero non è un ri-radicamento e non deve essere visto neppure come uno sradicamento. Deve essere considerato come l’apertura dei rami, della chioma. Servono le radici ma servono anche le foglie per fare vivere l’albero. Quindi è fondamentale fare sì che intercettino più sole e vento, più stimoli. Però, per quanto lontano poi possa estendere i rami, è importante sapere in che terreno hanno avuto origine le radici di quel tronco. Quando vai all’estero, è come se ti spacchettassi, i rami si stendono belli lunghi, e senti proprio un senso di distensione della colonna vertebrale, delle braccia, delle ossa, senti scricchiolare, vanno in tensione. L’unica cosa che devi fare, almeno per chi è ha la fortuna di entrare dove si cercano qualità e professionalità, meno per chi va a fare dei mestieri che sono a volte gli stessi che qui magari avrebbero rifiutato, è spacchettarsi. Per cui tu spacchetti qualità e scopri che puoi dare e cominci a costruirti un’autostima.
Quando torni in Sardegna è come se tu sentissi che qualcuno, come una forza, cercasse di rimetterti dentro il pacchetto, nella scatola originale. Il problema è che, se vogliamo usare una metafora abusata, il dentifricio lo puoi fare uscire, poi però è difficile rimetterlo dentro il tubetto. E allora, ed è questa la sfida, credo che si tratti di non farsi rimettere dentro il tubetto e di poter fare quello che è la tua inerzia, il tuo potenziale e il tuo talento. O forse è tutti questi tre elementi insieme.
Fonte: http://tramasdeamistade.org
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