Ossus ‘e mottu e pabassinas nella notte de Is Animeddas: il bello di conoscere e non dimenticare le tradizioni
di 28 Ottobre 2014 11:50 Letto 11.123 volte3
Il 31 ottobre si festeggia Halloween. Ci si traveste e ci si trucca, si decora la casa, feste, giochi, i bimbi che chiedono caramelle, una sorta di carnevale dei mostri. Il nome deriva dall’inglese: il 1° novembre, giorno di Ognissanti (Tutti i Santi), in inglese viene detto “All Saint’s Day”, la vigilia, ovvero la notte del 31 ottobre “All Halloweed Eve” (ossia Vigilia di Tutti i Santi) , che poi è stato abbreviato in Halloween, e ha origine da una leggenda che narra dell’incontro tra un uomo e il diavolo.
“Sting Jack era un beone che viveva in Irlanda, giocava, aveva molti dediti e fece un patto con il diavolo: gli vendette l’anima per pagare i suoi debiti. Si incontrarono durante la notte del 31 ottobre e Jack offrì da bere al diavolo, egli accettò ponendo una condizione, ossia che pagasse Jack. L’uomo astuto mise allora in dubbio che il diavolo si potesse trasformare in qualsiasi cosa volesse, gli chiese con scherno di trasformarsi in una moneta e quando il diavolo lo fece, Jack prese la moneta, se la mise in tasca vicino a una croce d’argento impedendo così al diavolo di riprendere le sue forme.
Il diavolo allora propose un accordo all’uomo: se lo avesse liberato avrebbe lasciato in pace Jack per un anno. Jack accettò pensando di riuscire a diventare una brava persona, di smettere di bere, di accudire la famiglia, in modo che il diavolo non potesse cercar più nulla da lui.
Così non fu, Jack non riuscì a cambiare la propria vita, e l’anno successivo, sempre la notte del 31 ottobre il diavolo tornò a prendersi Jack. Anche questa volta l’astuto uomo riuscì ad ingannare il demonio, ma l’anno successivo morì. Gli fu negato l’accesso al Paradiso, ma anche all’Inferno, il diavolo infuriato per essere stato ingannato lo rispedì sulla terra a peregrinare come un’anima in pena. Mentre l’uomo vagava tra le tenebre raccolse una rapa per cibarsene, ma il diavolo gli lanciò un pezzo di carbone ardente dall’Inferno, che Jack, disperato prese per illuminare il suo incessante cammino tra le paludi alla ricerca di una pace che non trovò mai.”
Più tardi la rapa fu sostituita nella tradizione popolare da una zucca e da qui nacque la leggenda di Jack-O-Lantern.
Le origini di Halloween risalgono ai Celti, antico popolo che abitò Francia e Inghilterra circa 2000 anni fa.
I Celti credevano che il 31 ottobre, per loro giorno della vigilia del nuovo anno, gli spiriti malvagi dei defunti tornassero in vita per seminare il panico e la paura tra gli esseri viventi. I festeggiamenti avevano lo scopo di placare gli spiriti.
La Festa religiosa di Ognissanti in realtà non ha nessuna attinenza con Halloween, come magari in apparenza potrebbe apparire, in quanto Ognissanti ha avuto origine nella Chiesa Cattolica nel 840 D.C. circa, indetta da Papa Gregorio IV.
Inizialmente si celebrava nel mese di maggio poi la data fu spostata al 1° novembre da Odilio de Cluny nel 1048, con l’intento proprio di sovrapporsi e contrastare l’antico culto dei druidi celtici.
A causa della leggenda, delle sue origini e del fatto che secondo le antiche “leggi della stregoneria“ il 31 ottobre è un giorno strettamente connesso con la magia e il satanismo, questa giornata è stata enfatizzata: la paura, la morte, gli spiriti, la stregoneria, la violenza, i demoni, tutto contribuisce a rendere questa data attraente per tanti.
Qui in Italia da qualche anno si è fatta nostra una festa che in realtà non appartiene alla nostra cultura, se ne parla nella scuole, si ritagliano zucche, si travestono i bambini.
Da noi vi è soprattutto l’aspetto commerciale che si mette in moto per vendere dolci, vestiti e decorazioni, in quanto sono ben poche le persone che sanno che cosa sia la festa di Halloween, il culto della morte nella sua essenza originale, ma in realtà solo una mascherata dei bambini che girano per le case a chiedere dolci, di adulti che si travestono e festeggiano senza sapere che cosa.
Attualmente, in tutta Italia, i bambini nei giorni che precedono e seguono la giornata di Ognissanti, hanno ripreso a passare di casa in casa col classico intercalare “dolcetto o scherzetto?”, frase derivata chiaramente dalla moda d’oltreoceano di Halloween.
Is Animeddas
Molti lo ignorano, ma sarebbe bello che, soprattutto i bambini sardi, sapessero che questa “rituale”, divertente e piacevole è un’usanza che appartiene da molti secoli alla tradizione sarda e andrebbe recuperata dalla proprie radici; non è quindi un prendere un qualcosa da usanze di altre culture e tradizioni, ma piuttosto un Riprenderle, consci che sono reminiscenze di antiche tradizioni dei nonni dei nostri nonni.
“Rispetta i mottus e timmi i bius” recita un antico detto sardo.
In Sardegna, la venerazione dei morti è strettamente legata al cibo, in particolar modo alla creazione e al consumo di dolci; ha luogo nei giorni che vanno dal 31 ottobre fino al 2 novembre, e viene comunemente chiamato “Is Animeddas”, ovvero “culto delle anime (del Purgatorio)” e in base alle zone in cui si celebra assume nomi diversi, come ad esempio nel nuorese assume la nomea di “Su Mortu Mortu”.
Cambia la denominazione ma non la sostanza, infatti l’attenzione è rivolta essenzialmente alle anime che stazionano ancora nel Purgatorio, in attesa di giudizio perché ancora impure per via di colpe non del tutto espiate, che impediscono alle anime di varcare la soglia del Paradiso. Da tradizione, sono le preghiere dei vivi ad aiutare l’ascesa delle anime verso la beatitudine eterna, pertanto, ogni famiglia si preoccupa, durante questi giorni, di “agevolare” l’anima di qualche loro caro.
Il giorno di Ognissanti è un momento particolare: la distanza e il contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti quasi si annulla e, grazie alle preghiere e ai gesti compiuti dai vivi, le anime dei defunti possono raggiungere il Paradiso.
Parrebbe siano proprio i bambini, ad aiutare in questo i morti, chiedendo dolci, frutta secca e preghiere in suffragio delle anime dei defunti; preghiere, cibo per l’anima, ma ciò che colpisce sono i dolcetti, cibo per il corpo!
Anche a Serramanna, la sera del 1 novembre, si usava preparare una cena più abbondante del solito, per poi lasciare la tavola apparecchiata e con ancora del cibo, offerto per le anime che sarebbero venute a far visita alle loro vecchie abitazioni.
La pastasciutta, in particolare, doveva essere fatta a mano: con il pollice e senza l’uso di strumenti di legno, rame o ferro; doveroso lasciare sulla tavola la brocca dell’acqua. Non doveva essere lasciata alcuna posata sul tavolo, perché, si diceva che potevano essere sconosciute a seconda del tempo in cui le anime avevano vissuto sulla terra, così come era assolutamente indispensabile non lasciare coltelli in giro, in quanto un anima eventualmente indispettita o con pendenze insolute avrebbero potuto farne cattivo impiego, o avrebbe potuto tentar di portar via con sé un parente al quale era stata particolarmente affezionata o legata.
Un’altra rigida precauzione era quella di non chiudere a chiave porte, cassapanche e bisognava lasciare le ante, gli sportelli e i cassetti delle credenze aperti per dare alle anime in visita la possibilità di prendere qualunque cosa di loro gradimento.
Ovviamente, a meno di qualche burla opera di un “vivo” la cena rimaneva integra e la mattina seguente veniva offerta ai poveri del paese. A partire da mezzogiorno del 1 novembre e fino al mezzogiorno del giorno seguente, le campane “toccanta a mottu” e gli abitanti potevano andavano al campanile per portare da mangiare e da bere ai campanari, e talvolta si intrattenevano a mangiare assieme a loro.
Oggi fa sorridere che si “praticasse” questo rito, soprattutto considerando che uno spirito non ha bisogno di entrare o uscire utilizzando passaggi aperti, appunto perché essendo etereo potrebbe facilmente attraversare muri e porte. Chissà se ingenuamente non ci si pensava, o forse era più forte il “mellusu a timmi che a provai” e si procedeva in ossequio alla tradizione senza farsi troppe domande.
Prima della cena, i bambini andavano in giro per il paese a bussare alle porte, dicendo “seus benius po is animeddas” e ricevendo in cambio dolcetti, frutta secca e in rarissimi casi, denaro.
La forte tradizione dolciaria sarda che si legava a questa “festa” esiste tutt’oggi. Ricca e varia, ma come base ha principalmente la sapa (“sa saba”, prodotta tramite la cottura del mosto, che regala ai dolci un colore scuro, quasi nero di terra, in perfetta armonia cromatica con il periodo che ci si accinge a festeggiare).
“Sa saba” (mosto cotto)
Ingredienti: acini di uva bianca
Procedimento: schiacciare gli acini e far colare attraverso un setaccio il mosto in una pentola di alluminio. Iniziare la cottura a fuoco lento e schiumare di tanto in tanto la schiuma che affiora in superficie. Quando il liquido sarà dimezzato la cottura può considerarsi ultimata.
Per controllare la giusta consistenza , basta far cadere una goccia di mosto cotto su una superficie piatta, passarvi in mezzo il dito e se “la goccia” che si è formata non si richiude, la cottura può considerarsi ultimata.
Pan’e’saba
Ingredienti:
500 grammi di farina
1 bicchiere di sapa
200 grammi di uva passa
200 grammi di noci
50 grammi di pinoli
50 grammi di mandorle spellate
25 grammi di lievito di birra
10 grammi di cannella
sale quanto basta
Sciogliete in acqua tiepida il lievito di birra, si unisce in una terrina alla farina ed alla sapa, versata a pioggia ed amalgamata a mano. A parte, sminuzzate la frutta secca e lasciate ammorbidire l’uva passa per qualche minuto in acqua fresca.
Scolata l’uvetta, unitela assieme alla frutta secca all’impasto, aggiungendo il sale e la cannella, ed impastate ancora fino ad ottenere un composto morbido e uniforme. A questo punto lasciate riposare l’impasto per due ore circa, coprendolo con una coperta di lana.
Dopo la lievitazione, dividete l’impasto in panetti più piccoli e infornateli; l’ideale sarebbe avere a disposizione un forno da pane, ma per la versione “casalinga” è sufficiente una teglia o degli stampi imburrati con forno caldo (200°) e cottura di un’ora circa.
Quando è ancora tiepido, spennellate i pani con altra sapa e, a piacere, guarnitelo con palline o treccine di zucchero e mandorle in superficie.
Pabassinas
(Ricetta tratta da: http://www.ricetteecooking.com)
Ingredienti:
2 kg. di farina
500 g. di zucchero
300 g. di strutto
300 g. di mandorle
200 g. di noci
300 g. di uva passa
50 g. di semi di anice
40 g. di ammoniaca per dolci (da acquistare in farmacia)
Due limoni (la scorza grattugiata)
Due arance (la scorza grattugiata)
Per la glassa:
400 g. di zucchero
Una chiara d’uovo
Per guarnire:
Granella di zucchero colorata q.b.
Versare in una terrina la farina, lo strutto ammorbidito a temperatura ambiente e mescolare, aggiungendo un po’ di acqua fredda (tanta quanta ne serve per amalgamare bene tutti gli ingredienti); unire quindi l’uvetta (precedentemente ammollata 20 minuti in acqua tiepida e poi strizzata ed asciugata con della carta assorbente da cucina), la scorza dei limoni e delle arance grattugiata, i semi di anice, lo zucchero, le mandorle e le noci precedentemente tritate e, per ultimo,l’ammoniaca.
Dopo aver infarinato leggermente il piano di lavoro, tirare una sfoglia alta poco meno di un centimetro e, con una formina, tagliare i biscotti a forma di rombo; disporli sulla piastra del forno precedentemente rivestita con della carta da forno e fare cuocere a 180-200° fino a quando non assumono sulla superficie un leggero colore dorato.
Una volta raffreddati, debbono essere guarniti con una glassa bianca che si ottiene procedendo nel seguente modo: mettere in un tegame lo zucchero con un po’ d’acqua fredda (il tanto da inumidirlo e renderlo come una pasta colante) e farlo cuocere a fuoco basso sino a quando comincia a filare e la goccia rimane ferma nel cucchiaio; a questo punto, unire la chiara d’uovo precedentemente montata a neve ferma.
Con la glassa così ottenuta, rivestire quindi la superficie dei biscotti e guarnire distribuendovi sopra qualche granellino di zucchero colorato.
Ossus ‘e mottu
(Ricette tratte da: http://www.alberghierogramsci.gov.it)
Ingredienti
1 kg di mandorle tagliate a fettine sottili e tostate
600 gr di mandorle macinate
40 gr di cannella
2 limoni
800 gr di zucchero
16 albumi montati a neve
Preparazione
Mescolare tutti gli ingredienti in una terrina, montare gli albumi a neve ed incorporare all’impasto finché non assume una consistenza né troppo morbida né troppo asciutta, modellare con le mani in modo da ottenere dei piccoli triangoli, o nella forma più conosciuta, cioè stringendo un po’ di composto nel pugno e stringendo le dita si otterrà una forma allungata. Cuocere ad una temperatura di 160-165 gradi per 25-30 minuti circa e spennellare con lo sciroppo di zucchero; decorare con una sottile striscia di doratura. (Anna Maria Sarritzu)
Preparazione 2
In un recipiente capace frullate gli albumi con lo zucchero a neve fermissima; quando lo zucchero sarà completamente sciolto aggiungete un kg di mandorle affettate sottoli e tostate, 100 gr di mandorle macinate finemente, la cannella e la scorza grattugiata dei limoni.
Amalgamate bene; quindi prendete una noce di impasto tenendola nel palmo della mano, stringetela, senza che esca ai lati del pugno, fino a lasciarci il segno delle dita; non eccedete poiché il dolce non deve essere troppo schiacciato, bensì assumere la forma di un piccolo osso.
Disponeteli distanziati sulla carta da forno, cuocete a 170 gradi per 20 minuti.Lasciateli freddare bene prima di toglierli dalla teglia poiché saranno friabili; quindi glassateli.
La glassa va preparata con uno sciroppo quasi glassato: si tiene lo sciroppo a fuoco molto basso e si pone a bollire in un altro recipiente più piccolo della semplice acqua; si indossano dei guanti di cotone onde evitare scottature tenendo il dolce sopra il tegame con lo sciroppo a mesu puntu, spennellate con un pennello largo: dapprima 2 volte nella superficie inferiore e 3 volte in quella superiore, indi riponete su un vassoio e decorateli con s’indoru prima che asciughino.
Affinché lo zucchero filato non cristallizzi aggiungete di tanto in tanto un po’ d’acqua bollente prelevata dal piccolo recipiente, e riportatelo alla densità desiderata. (Rosalba Lecca)
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