Capezzoli di pietra – Eliseo Spiga
di 9 Febbraio 2015 12:00 Letto 3.675 volte0
Immaginando l’implosione di un mondo moderno, quale oggi il nostro, in cui non c’è più differenziazione, tutti appiattiti su un unico modello di cultura, le caratteristiche, le specificità, le distinzioni, le particolarità annullate dalla globalizzazione, l’autore proietta il protagonista Nurghulè, riarso dalle febbri malariche e in preda ad una specie di dissociazione, nell’epoca preistorica della Sardegna. Nurghulè rivive le epoche passate della storia sarda, lui uomo nuragico, ripercorre i tempi in cui sulla nostra terra convivevano diversi gruppi arrivati in tempi diversi e tutti ambientatisi perfettamente sull’isola. Riesuma quell’arco di tempo in cui tali genti si uniscono sotto il simbolo del Nuraghe “che altro non è se non voto all’eternità”. Rivive l’annientamento di quella confederazione di uomini e donne che non conosceva re e regine, dei e dee, città e palazzi, moneta e gioielli.
Il dolore della perdita di quel mondo quasi se lo sente sulla pelle il lettore, mentre scorre quelle righe e scopre quanto ci è stato nascosto dalla storia ufficiale, sia sarda che nazionale. Quella storia che ancora si arrovella sulla funzione dei nuraghi, che ben poco ci sa dire di quel tempo in cui siamo stati veramente liberi, padroni di noi stessi e del nostro destino quando scegliemmo, come popolo, di non sfruttare, quindi di non essere sfruttati, di non obbedire, quindi di non dare ordini, di “essere custodi del vincolo unitario tra tutte le comunità”, di costruire “torri di grandi pietre lavorate che siano la prosecuzione delle opere rocciose della Natura”. Nuraghi come capezzoli di pietra per “ingraziarsi il vento” e svettare contro un cielo lontano e sgombro di divinità da servire. Perché il sacro e il divino per i nuragici è nella Terra, è nell’acqua venerata nei pozzi sacri, nelle sorgenti, nelle mitzas presenti in ogni contrada, simbolo di fecondità primigenia ed eterna. Una flora ed una fauna sorella e amica affianca quelle popolazioni e pare che partecipino pure loro alla vita delle comunità nuragiche.
Un Eden svanito, un paradiso perduto che i sardi hanno dimenticato, colonizzati, oggi più che mai, anche nella cultura, ignari del loro passato. E se non si recupera quella memoria storica, cuore e anima di un popolo, non ci potrà essere futuro di riscatto…e neppure un popolo.
Eliseo Spiga, sardo consapevole e combattente, ha costruito il mito, come Sergio Atzeni nel suo libro ‘Passavamo sulla terra leggeri’, ha cercato con l’epica e la leggenda di chiudere un cerchio che gli accademici rimandano e spesso ignorano cercando la certezza storica nel reperto archeologico. Anche noi sardi abbiamo diritto al nostro mito degli antenati e lo possiamo trovare nei Nuragici, giganti di dignità e saggezza, nei Nuraghi, simbolo di sovranità comunitaria, nella nostra Terra così violata, saccheggiata eppure struggente nel suo isolamento. Chissà cosa avrebbe scritto Eliseo Spiga se avesse visto i giganti di Mont’e Prama ricomposti nella loro grandezza e compostezza, lui che scrive nel suo libro di “sognare un mondo senza cartagine, senza roma, senza bisanzio, senza piramidi” ( tutto scritto rigorosamente in minuscolo!).
Un romanzo suggestivo e potente che ci apre orizzonti dimenticati che pure abbiamo sotto gli occhi, che può aiutarci a ritrovare un’identità storica, “identità – scrive Franziscu Casula – che si trasforma in questione operativa, che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro”.
Aicci siada, assinuncasa deusu ‘ndi tengiada caridadi de sa terra nosta.