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Intervista a professor Francesco Casula (parte I)

di Andrea Mura Letto 4.371 volte2

di Manuela Orrù

La scorsa primavera si è tenuto nei locali di via Rosselli, organizzato dall’UNITRE di Serramanna, il corso gratuito “Imparai su sardu. In sardu”. Mentore del corso l’inossidabile ed entusiasta professor Francesco Casula da Ollolai. Interessato e curioso anche il discreto gruppo di allievi, tutti over 40, impazienti di imparare o anche solo migliorare la conoscenza della lingua sarda. Il professore, oltre alle regole di grammatica, sintassi e morfologia, ci porta a conoscenza di fatti storici spesso ignorati dai sardi, di libri e poesie scritti in limba che ci rivelano la ricchezza e la capacità espressiva della lingua dei nostri avi. Ed è durante una di queste lezioni che mi viene l’idea di una intervista al professore, il quale si dimostra subito disponibile e gentilissimo. Quella che oggi pubblichiamo è una prima parte, sette domande e risposte delle undici totali. Abbiamo pensato di dividerla perché le risposte, tutte interessanti, necessitano di una riflessione da parte di ogni sardo che si senta tale. Confesso che l’unico rammarico è che il tutto si sia svolto per via telematica, mentre avrei preferito un incontro frontale capace di far emergere emozioni e “sentidusu” che la distanza nasconde. Ma non è detto che ciò non accada in un futuro prossimo. Buona lettura a tutti e se ne nascerà un vivace dibattito, tutti avremo occasione di acquisire maggiore consapevolezza sull’essere abitanti di questa terra chiamata SarDegna.

Intervista Parte I

1) Quando e perché ha deciso che la divulgazione della lingua e della storia della Sardegna sarebbero diventate una sua attività?

Le radici sono da ricondurre alla mia attività di docente nei licei e nelle scuole superiori. Quando – nella scuola italiana in Sardegna – ho avuto modo di sperimentare una impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale, ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda. Che ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare attraverso la smemorizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra le più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Ma c’è di più: una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi  e categorie che le “grandi civiltà” avrebbero voluto irradiare verso le “civiltà inferiori”, ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli. Di tale appiattimento, una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.

Nasce da questo contesto e da questa temperie pedagogica-didattica la mia scelta prima di insegnare la lingua sarda e la storia locale a scuola e in seguito di divulgarle, come tutt’ora faccio, dovunque posso. Perché i Sardi, partendo da radici robuste, – che solo la nostra lingua e la conoscenza della nostra storia può crearci – possano dotarsi di ali, altrettanto robuste, per volare alti nel mondo.

2) Ha senso oggi parlare di identità sarda?

Oggi più di ieri ha senso parlare di Identità sarda. Partendo dalla  convinzione e dalla consapevolezza che la standardizzazione e  l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Di qui la necessità della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.

3) Di cosa hanno bisogno i sardi per recuperare o, se vuole, per non dimenticare la loro identità?

Hanno soprattutto bisogno di conoscere la loro storia. La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale. Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e specificità, come individui e come comunità. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. La diversità ci salva dalla omologazione–standardizzazione

sardegna

4) Per anni ci siamo vergognati del nostro accento, della nostra lingua, in una parola vergognati di essere sardi. Oggi è ancora così o qualcosa sta cambiando?

Sia pure in modo ancora insufficiente, qualcosa inizia a cambiare nelle coscienze e nell’immaginario collettivo dei Sardi. Il senso di “vergogna di sé” è ancora forte e presente ma inizia ad essere incrinato.

5) Lei si è occupato di politica, di sindacato, di insegnamento: ritiene che queste tre attività siano capaci di dare risposte e opportunità ai sardi?

Finora il ruolo della politica come quello del Sindacato e della Scuola è stato gravemente insufficiente. Per responsabilità anche della “base”, di noi cittadini che avremmo dovuto essere più attivi, più protagonisti: tallonando continuamente politici, sindacati e scuola. E’ invece prevalsa la logica della delega, della de-responsabilità. Per cui molto spesso la politica è diventata affarismo, il Sindacato ha abbandonato il ruolo di difensore degli interessi dei lavoratori e la Scuola – come sosteneva Pier Paolo Pasolini – trasmettitrice di “residui retorici” e non creatrice e divulgatrice di cultura critica.

6) Secondo lei perché l’indipendenza e l’autonomia ci fanno paura? E perché sono diventate per i sardi parole vuote di significato?

Non sono parole vuole ma rischiano di esserlo. Nella misura in cui non riusciamo a riempirle di contenuti, progetti, visioni. Ci fanno paura? Non direi. E se così fosse è perché siamo stati abituati all’assistenzialismo dello Stato, senza il quale pensiamo che non ce la possiamo fare. Siamo tutt’ora convinti di essere dei nani che “aspettano giganti che li portino sulle spalle” (Marcello Fois in Dura Madre, pagina 192). Ma i giganti non esistono. E caso mai li abbiamo avuti noi i Giganti! Non dobbiamo cercarli altrove.

7) Lei oggi vive a Cagliari: eppure i festival letterari, le iniziative culturali partono quasi sempre dai piccoli centri. La provincia, is biddas, tengono vivo l’humus culturale dell’isola?

Condivido. Sono soprattutto is biddas a tenere vivo l’humus culturale identitario della nostra Isola. Così peraltro è stato nella nostra millenaria storia: con nostri paesi che hanno prodotto non solo cultura materiale (soprattutto agro-pastorizia) ma anche cultura immateriale.

Ricordo quanto scrive Bachisio Bandinu, forse l’intellettuale sardo più acuto e prestigioso:”Il pastoralismo ha dato vita all’intellettualità sarda. Proviamo a unire gli spezzoni della Sardegna a caratterizzazione pastorale a partire da Emilio Lussu e i cosiddetti re pastori di Armungia per arrivare in Ogliastra, Barbagia, Mandrolisai, Marghine, Logudoro e non solo. Pensiamo a Peppino Mereu, Mossa, Cubeddu, Murenu, la poesia orale degli improvvisatori, Deledda, Cambosu, Sebastiano e Salvatore Satta, Nivola, Ballero, Ciusa, i grandi avvocati nuoresi, Mastino, Oggianu, Pinna per non parlare di Antonio Pigliaru, di Michelangelo Pira e Antonello Satta. In senso antropologico vengono tutti dal mondo pastorale, escludiamo questa gente e vediamo cosa resta”.

La seconda parte dell’intervista è disponibile QUI

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