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Giocavamo a Pallone in strada – Racconto Completo

di Davide Batzella Letto 14.362 volte0

«Serramanna non è certamente il luogo migliore del mondo in cui vivere,
ma è certamente il luogo in cui a me piacerebbe vivere».
Paolo Casti, Giocavamo a pallone in strada

Pubblichiamo il racconto vincitore del concorso letterario “Raccontiamo la nostra Storia“, premiato il 6 settembre 2015 in occasione dei festeggiamenti di Santa Maria.

Il racconto fa parte – insieme ai contributi degli altri partecipanti – della raccolta “Serramanna si racconta“, libro dedicato a tutti i serramannesi, ai residenti e a coloro che per scelte di vita stanno lontani ma continuano a sentirsi parte integrante della comunità.

Il concorso letterario è stato organizzato dall’Ass. Culturale “Il Pungolo” che, nell’agosto 2015, scrisse:

Come speravamo, sono giunti interessanti testi di vario tipo: racconti di finzione, autobiografici, ricordi, ritratti di personaggi della nostra Comunità, ricerche e riflessioni sulla storia di Serramanna e sui cambiamenti sociali ed economici avvenuti negli ultimi decenni. Se lo scopo di questa iniziativa letteraria era custodire e tramandare la memoria collettiva del paese, possiamo dire che gli Autori sono riusciti a rappresentare nelle loro pagine gli aspetti più significativi della nostra cultura e questo ci fa veramente piacere, perché significa che l’invito che vi abbiamo rivolto è stato apprezzato e condiviso da tanti.

Giocavamo a pallone in strada

di Paolo Casti

Erano gli anni del “SuperTele” o del “Tango”, per chi poteva permetterselo o riusciva a farselo comprare dai genitori; un pallone durava una, massimo due o tre partite, sì perché finiva o per bucarsi nelle inferriate delle case o andava a finire in qualche cortile abbandonato, dal muro alto.

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All’inizio giocavamo in strada tra le buche e i sassi, poi finalmente quando avevo all’incirca 10/11 anni asfaltarono la strada di casa e allora conoscemmo “is trisinarasa” nei pantaloni o nelle gambe nude d’estate.

Giù di casa c’era ancora “su corettoi” scoperto e ricordo ancora le botte che ci dava mamma quando rientravamo a casa sporchi di fango e terra dopo le “gare di discesa”; dall’altra parte c’erano “le montagnette” dove poi sorse la pista di pattinaggio, una vera manna dal cielo per il negozio di Lucio Fanti, che si contendeva con Sartorio Piga lo scettro di fornitore numero 1 di pattini a rotelle; vinceva sicuramente il Fanti che ne portò un modello a caviglia alta… scarpa blu che sembrava in raso e rotelle gialle; quante gambe e braccia rotte in quel periodo.

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Negli ospedali cagliaritani, dopo qualche giorno compilavano la scheda del pronto soccorso ad occhi chiusi: “Viene da Serramanna, vero?”.

Peccato che il boom della pista di pattinaggio durò poco… forse qualche mese, però fu bellissimo.

La pista cominciava a popolarsi già dal primissimo pomeriggio e i ragazzi più grandi si organizzavano e portavano un impianto stereo con delle casse potenti che sparavano la musica metal/rap dei Beastie Boys a scandire il via vai dei provetti pattinatori.

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Puntualmente, alle 18:00 circa, arrivava la signora Marilena a far spegnere tutto perché diceva che tutto quel baccano disturbava la figlia che doveva studiare…

Ricordo ancora le evoluzioni di Lello e di altri che con la loro abilità erano l’invidia di molti; ricordo anche la destrezza di Lucianino, Franco, Francolino e altri di cui ora mi sfugge il nome, che oltre a sfrecciare in pista andavano forte anche nelle vie del paese; io per fortuna ebbi i pattini qualche anno prima dell’avvento della pista e imparai per tempo ad andarci.

Li ricevetti in regalo per Natale (ordinati rigorosamente dal “Postalmarket”), erano dei pattini regolabili, interamente neri, con le ruote gialle e con le cinghie da stringere sulla scarpa; con la costruzione della pista che era quasi di fronte a casa mi attrezzai di un paio di quelli che vendeva Fanti e quando si ruppe la scarpa in dotazione ci montai sopra una vecchia scarpa da calcio che aveva già i fori dei tacchetti per fissarla alla struttura del pattino. Li ho tutt’ora!

Erano i tempi in cui non si buttava via nulla e ci si arrangiava.

Ma prima della costruzione della pista di pattinaggio erano gli anni delle “montagnette”; caratterizzati dalle gare di salto con le biciclette che si concludevano inevitabilmente quando il telaio si spezzava in due… quante “grazielle” distrutte!

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Fortuna che vicino a casa oltre alla Vetreria del signor Farci, c’era anche “su ferreri”, il signor Serra, a cui ci rivolgevamo per mettere dei punti di saldatura sul telaio. Le biciclette che erano per la maggior parte pieghevoli e dotate di ceneriera, venivano in pochi minuti trasformate in “grazielle” dal telaio fisso.

In alternativa alle bici sperimentammo le battaglie a colpi di pietre… si proprio così, si formavano le squadre che sceglievano dietro quale cumulo di terra ripararsi e partiva la sassaiola.

Giochi che non erano certo istruttivi e che terminarono inevitabilmente quando mio fratello si procurò un bernoccolo e una ferita mica da ridere sulla fronte.

Tornammo alle nostre care biciclette in breve tempo.

Tutti provammo una certa invidia per Fabrizio che era riuscito a farsi comprare da papà Egidio il mitico e tanto desiderato “Cross20” antagonista delle tanto desiderato “Saltafoss” con la leva delle marce, in stile automobile, direttamente sul telaio e addirittura la sella lunga rialzata, sostenuta da delle antiesteticissime staffe forate o del “Vivi Rock 20” con gli ammortizzatori nelle forcelle anteriori!

Fantascienza, al pari delle astronavi di “Spazio1999” (a quei tempi molto in auge) agli occhi di noi bambini.

Altra invidia da morire provavamo per i piccoli motocross o i “Fantic Motor” dei fratelli Giancarlo e Anselmo, di qualche anno più grandi di noi, che abitavano di fronte a casa (il papà Francesco è stato il primo venditore di automobili Opel del circondario).

Ovviamente l’esclusiva della vendita e riparazione delle biciclette era di Salvatore Mulas che aveva il suo negozio-officina in Via Roma prima del tabacchino di Miscali, dove per entrare dovevi fare un paio di gradini e al suo interno ti si apriva un mondo fatto di raggi, copertoni e poster alle pareti dei campioni delle due ruote di allora e marchi famosi come Bianchi, Carnielli, Legnano, Atala, Bottecchia e miriadi di selle, cavetti per freni… che nostalgia le 5 lire che sostituivano più che decorosamente le rondelle a ridosso della leva del freno sul manubrio.

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Salvatore Mulas (Foto di Aldo Pusceddu)

Poteva capitarti addirittura di incontrare Valentino Bandinu o Dario Putzolu, miti della “Gialeto ciclismo” di quegli anni o assistere alle discussioni e commenti tra gli appassionati che si intrattenevano lì piuttosto che nella adiacente Piazza Martiri.

Il signor Salvatore, conosciuto ai più col soprannome di “tranquillo”, era proprio una persona molto pacata e ponderata, tanto che se andavi a comprare due pezzette o un cappelletto potevi restarci anche mezz’ora al negozio prima che ti servisse, poiché spesso era intento a regolare i raggi di una ruota e finché non terminava non ti degnava di attenzione. Persona splendida e competente seppur taciturna.

Da lui mio papà comprò la mia prima vera bicicletta, come premio per la promozione in 3° media; una “Atala” modello semicorsa verde metallizzato con manubrio stretto e cambio a 5 marce. Il negozio era già in Via Rinascita ed ‘è sempre rimasto il mio punto di riferimento in fatto di biciclette.

Dell’acquisto dei cappelletti dicevo.

Ogni volta che uscivo in bici tornavo senza, ma non perché li perdessi, ma semplicemente perché me li rubavano. C’era questo ragazzino più grande di me che ogni volta che mi vedeva mi bloccava la strada, mi costringeva a fermarmi e puntualmente mi rubava i cappelletti…

Graziano si chiamava… quanto l’ho detestato.

Tornavo già in lacrime a casa sapendo della ramanzina che avrei subito da mio padre; mi vergognavo di dirgli che mi facevo sempre derubare e tiravo fuori mille scuse e inventavo mille storie su come li avessi potuti perdere.

Io e miei amichetti avevamo creato la squadretta del vicinato; ogni vicinato ne aveva una e soprattutto negli afosi e assolati pomeriggi di maggio/giugno si organizzavano i campionati.

Ricordo che con Fabrizio e Andrea andavamo nel negozio di ferramenta giù di Via Serra a comprare “il nastro rosso da elettricista” per fare i numeri da attaccare sulle spalle delle magliette.

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1981 – Via Serra (Foto di Salvatore Murgia)

Dopo due corsette il numero cadeva a terra, ma non era un problema.

Spesso la partita finiva perché se al proprietario del pallone non veniva passata la palla o alla sua squadra venivano fatti troppi gol, prendeva e diceva “Non gioco più”, e se ne andava a casa spesso in lacrime portandosi via il pallone.

Il bello era andare nei vicinati lontani, ma anche trovare un campetto in cui giocare in alternativa alla strada era una grande conquista.

Il primo campetto che io conobbi era all’incrocio tra Via Satta e Via Manzoni; non era certo un campetto a regola d’arte, anzi, era in discesa, pieno di sassi e di buche, ma per noi bambini era un campo di calcio da Serie A.

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Non ricordo nemmeno bene come riuscimmo addirittura a procurare della calce per tracciare le linee del campo; incredibile, con le porte senza la rete e le bandierine agli angoli, una meraviglia.

Peccato allora non ci fossero gli smartphone come ci sono ora, per avere un ricordo tangibile.

Quello in breve tempo divenne il nostro campo “di casa” in cui accoglievamo le squadre degli altri vicinati; la prima “trasferta” fu al campo “della stazione”, poco prima dei binari della ferrovia (all’incrocio tra le attuali Via Toscana e Via Lazio) dove disputammo partite veramente agguerrite.

Ci tagliavamo, ci rompevamo le ossa, perdevamo i denti, e dopo, al rientro a casa, ci davano pure il resto!

Là vicino c’era un rubinetto da cui usciva un acqua freschissima e dove tutti noi bevevamo a turno poggiandoci pure le labbra… e non credo sia mai morto nessuno.

In seguito in quel terreno cominciarono i lavori di costruzione della casa del papà dell’amico Vittorio e non ci potemmo più giocare.

Un periodo giocammo anche in un terreno in Via Trentino Alto Adige, ma poi non ci andammo più a seguito di un fatto che ci impedì di riandarci; durante una partita oltremodo combattuta a Luca scappò una bestemmia, o meglio più di una, tanto che alla terza o quarta imprecazione dalla casa in costruzione di fronte, arrivò di corsa un signore, agitando delle tronchesine con la mano destra, che in pochi attimi fu addosso al “povero” Luca.

Era il signor Piero; lo conoscevo in quanto era il papà di un mio compagno di classe, e con le tronchesine afferrò il lobo dell’orecchio di Luca e gli disse, o meglio gli urlò in quello stesso orecchio: “Chi ti torru a intendi bestemmiendi tindi staccu s’origa e ti da fazzu ingutti!” e così, come in un attimo si era materializzato, in ugual lasso di tempo, sparì dalla nostra vista.

È inutile dire che la partita la finimmo lì e in tempo “zero”, noi dell’altro vicinato, inforcate le bici tornammo dalle nostre parti.

Anche io ho sempre odiato le bestemmie; ma certo, educare con la violenza non è il modo migliore di farlo.

È evidente che se fosse capitato al giorno d’oggi il signor Piero si sarebbe beccato una bella denuncia, ma noi eravamo tutto sommato bravi ragazzi e non strafottenti e “barrosusu” come i ragazzini di oggi e credo nessuno di noi, raccontò mai questo episodio ai genitori, tantomeno Luca.

Erano anni in cui noi bambini cominciavamo a dare i primi calci al pallone e la Gialeto era per noi come la nazionale.

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La domenica che la Gialeto giocava al “Fausto Coppi” noi con le nostre biciclette attraversavamo tutto il paese per andarci e posizionare quasi sempre nei gradini più in basso, così da avere alle nostre spalle quanto più pubblico possibile; era uno spasso sentire “i beccitteddusu” usare improperi irripetibili all’indirizzo dei giocatori avversari o dell’arbitro.

Ricordo come fosse ora, l’odore di vermentino che permeava l’aria.

Credo di avere imparato la maggior parte delle parolacce che conosco in quegli anni; anni in cui gli spalti erano perennemente gremiti e la gente preferiva andare al “Fausto Coppi” a vedere la Gialeto piuttosto che al “Sant’Elia” a vedere il Cagliari. Tuttalpiù qualcuno portava la radiolina e l’accendeva di tanto in tanto per sentire il risultato.

C’era addirittura la postazione di “Radio Fantasy” sistemata negli spalti, in corrispondenza della linea centrale del campo, allestita con “tubi Innocenti” e “taulloisi de linna” da cui veniva trasmessa la radiocronaca, per voce di Giorgio Boassa, per chi non poteva recarsi al campo per assistervi direttamente.

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Ricordo che la domenica mattina il campo in terra battuta veniva “tirato a lucido, annaffiato, spianato, livellato e tracciate le linee bianche in calce col carrello segnacampo; tutto intorno pullulava di cartelloni pubblicitari, in legno truciolare, magistralmente realizzati dalla falegnameria “Frongia” in cui potevi leggere i nomi del fior fiore delle attività serramannesi e non solo.

Ricordo la piramide, sempre realizzata in legno, che veniva posizionata prima del fischio d’inizio all’interno del cerchio di centrocampo, con la pubblicità del top sponsor, la “Casar” di Serramanna.

Erano gli anni d’oro della Gialeto, gli anni dei massimi successi della compagine rossoverde con lo sponsor “Casar” sulla maglia, rappresentato dalla cartina gialla della Sardegna e dalla scritta nera “Casar” in bella vista.

In porta c’era un certo Gianfranco Antonazzo, un omone dalle mani enormi che qualche anno prima nel Quartu, se non ricordo male, divenne famoso per aver segnato da porta a porta; un portiere davvero forte e bravo che fu nel giro della nazionale giovanile e della Roma mi pare.

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C’erano i massimi esponenti del calcio di allora, quali Virgilio Perra, Marco Masala, Giuseppe Giua, Francesco Boi, Mario Mureddu, Mario Isola, Carletto Concas, Antonello Curreli, il serramannese Rinaldo Medda… il meglio del meglio in circolazione.

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Non erano solo gli anni d’oro della Gialeto, ma lo erano di tutto il paese, con una Cantina (la Cantina Sociale del Campidano di Serramanna),  che è stata definita una delle più grandi d’Europa, il numero degli abitanti in crescita esponenziale, discoteche, una radio, due cinema; senza dimenticare la stagione dei muri dipinti che misero Serramanna al vertice dei luoghi in cui stabilirsi e mettere su famiglia.

Il murales degli incatenati lo vidi appena dipinto e ne rimasi esterrefatto, perché mi colpirono gli abbozzi delle figure umane cinte dal filo spinato e la sua enorme dimensione; lo osservai da casa di mia nonna Greca, che abitava in Via Rinascita e ne discutevano i miei zii tenendo in mano “L’Unione Sarda” che nella cronaca ne riportava la notizia e la foto della sua realizzazione.

Altro murales che ricordo con nostalgia è quello del bombardiere, che stava nel muro del bar di “Vittorieddu”, di cui più tardi, io e miei amici, assistemmo alla sua distruzione quando venne buttato giù il muro, prima per metà altezza e successivamente nella sua interezza… ne rimasi molto dispiaciuto.

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Feci il mio esordio con i pulcini della Gialeto a Cagliari, in una giornata piovosa, in cui giocammo contro la “Scuola calcio Gigi Riva”; perdemmo 11 a 0, ma io ero felice di aver disputato finalmente la mia prima partita con la mitica maglia della squadra del mio paese: la Gialeto di Serramanna.

Gialeto che sia in quegli anni che successivamente era conosciuta e rispettata in tutta la Sardegna ed ebbi prova di questo con il passare degli anni.

Il nostro campionato era quello delle maggiori squadre dell’area vasta di Cagliari, le varie Ferrini di Quartu, la Johannes, il Monte Urpinu, Assemini, Elmas e così via.

In estate si tornava a giocare nelle nostre strade e sfidare gli altri vicinati, fino al fatidico giorno in cui disputammo la tanto temuta trasferta al di là dei “cancelli”; il “dietro i cancelli” era tutto un altro mondo per noi, cresciuti nella zona della Cantina, de “Su depositu”, de su “corettoi” e le nostre mamme ci sgridavano sempre e ci dicevano “Non andare dietro i cancelli che è pericoloso. Il treno ha investito un sacco di bambini”.

Ma ci organizzammo ugualmente e con le nostre vecchie biciclette ci avventurammo lungo “su corettoi”, e poi in Viale Stazione, col suo spartitraffico e i lampioni curvi, verso i cancelli.

Ricordo che arrivammo che i cancelli si stavano chiudendo e tutti timorosi ci fermammo almeno cinquanta metri prima. Rimanemmo quasi rapiti nel vedere “sa littorina” passare come un fulmine.

Al di là dei cancelli c’erano dei nostri coetanei, per la maggior parte ragazzi mai visti, sia per il fatto che frequentavano le scuole di Via Silvio Pellico e sia per il fatto che quelli erano ragazzini che per la maggioranza giocavano nelle fila della “G.S.” (Gruppo Sportivo Serramanna).

Qua bisognerebbe aprire un capitolo a parte sulla rivalità tra le due squadre del paese, poiché si diceva che nella Gialeto giocassero quelli più bravi mentre nella G.S. andavano quelli che venivano scartati. Ovviamente non era così, ma tra ragazzini ci si scherniva e prendeva in giro così.

Certo è che la Gialeto, con più anni di storia sulle spalle, aveva sicuramente dei dirigenti più smaliziati, tanto che ricordo che ogni anno invitavano gli osservatori del Como Calcio per vedere se ci fosse qualche giovane promessa da martellinare e valorizzare.

Memorabile fu anche il torneo in cui fu invitata la squadra tedesca di Essen, i cui giovani calciatori vennero ospitati dalle famiglie dei giovani calciatori della Gialeto. Un ragazzo dai capelli biondissimi fu ospitato in casa dei miei amici Luca, Fabio, Stefano e Michela, e quando il loro papà Lucillo cercava di comunicare col piccolo teutonico ricordo che c’era da rotolarsi per terra dalle risate.

A proposito di Stefano, seppur nato in una famiglia di ciclisti è il serramannese che ha avuto più successi nel mondo del calcio, arrivando nel 1996 ad essere convocato in una partita di Serie A nel Cagliari allenato da un certo Giovanni Trapattoni e successivamente ha militato con onore in numerose squadre continentali tra le quali Fermana, Chieti, Pescara e Ravenna in Serie B e sarde come la Torres, la Nuorese, l’Arzachena, il San Teodoro etc.

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Papà Lucillo, orgoglioso, diceva sempre: “A Stefaneddu candu è mannu du bendeusu a sa Juventus”, e seppure non sia riuscito ad arrivare così in alto si è tolto, e ha dato, comunque significative soddisfazioni.

Torniamo alla mitica trasferta “dietro i cancelli”.

Il campo dei nostri avversari era prospicente l’attuale Via Albania poco più avanti dell’incrocio con la Via Nazioni Unite; era un campo enorme che aveva addirittura le porte con i pali di legno, seppur quadrati anziché tondi.

Rimediammo una sonora sconfitta, ma ancor più sonora fu “la sussa” che ci prendemmo dai nostri genitori al rientro a casa.

Ci costò il sequestro delle biciclette per almeno due settimane.

Impiegammo quelle due settimane per andare ad esplorare altri luoghi “proibiti”; con tutti gli amici del vicinato ci davamo appuntamento giù del conettone e ci spingevamo fino al cimitero e poi sotto al ponte; portavamo con noi dei barattoli in vetro e dal fiumiciattolo “pescavamo” i pesciolini (detti “conch’e mallu”, non saprei come si chiamano per davvero).

Capo spedizione era quasi sempre Rossano o l’altro vicino di casa, Valentino, che avevano l’età di mio fratello maggiore, ed erano sicuramente più smaliziati di noi altri.

Una volta riuscimmo a prendere addirittura delle piccole sanguisughe ma dopo che una mi rimase attaccata al dito non lo facemmo mai più.

Un’altra delle attività preferite da noi ragazzini era andare ad esplorare le case in costruzione, allora numerosissime nel nostro vicinato; spesso venivamo “beccati” dal proprietario e scappavamo verso la campagna allora non lontana come ora.

Ricordo con piacere anche le gite in biciletta con gli amici del vicinato lungo la strada che ora è diventa “Bia Serrenti”. Andavamo spesso con Fabrizio e col papà Egidio che doveva riprendersi da un problema di salute; prima tappa era alla Coop di Via Di Vittorio a comprare un pacco di patatine e le lattine di “One-o-One” per la merenda durante la passeggiata.

Altre volte il giro lo facevamo verso “s’acciumentau” che poi evitammo perché lungo il ciglio della strada non era raro imbattersi in “sa spia zruppa” (Tribulus terrestris – tribolo comune) “spina cieca” in sardo, che però ci vedeva benissimo, date le frequenti forature.

L’altra attività prediletta da noi ragazzini era andare a fare il bagno nella piscina di Peppuccio (i più grandicelli andavano a “i vascasa”), in cui per accedervi dovevi pagare dazio, ovvero dargli un cardellino o un verdone (che valeva quanto due cardellini); a quei tempi credo non fosse proibito catturarli, poiché era “sport” comune armarsi di bastoncino col vischio e catturali per poi metterli in gabbia e andare ogni tanto in campagna a cercare i semini dei cardi selvatici per darglieli da mangiare.

Peppuccio, era stato un grande calciatore della Gialeto dei primi anni ’70, assieme a Franco, Angioletto, Giancarlo e Alfredo; giocava col numero 10 sulle spalle e con i calzettoni alla Sivori, sempre abbassati sul polpaccio.

A casa di Peppuccio allora c’era una grande voliera, dove teneva tantissimi cardellini e dei bellissimi verdoni.

Con l’espansione del paese e la realizzazione della “dorsale periferica”, Corso Italia, anche “Collu” trasferì il suo elegante negozio nella zona nuova, in Via Emilio Lussu; nacque il mercatino civico e un piccolo parchetto con i giochi e il paese allargò i propri confini; laddove prima era campagna fecero nuove lottizzazioni e fu tutto un pullulare di nuove strade asfaltate.

Anche nel nostro vicinato come in altre zone del paese e nei paesi vicini, molte case erano affittate da militari, perlopiù tedeschi, che lavoravano alla base N.A.T.O. di Decimomannu, che credo portassero ulteriore benessere al paese.

Con l’aumento delle macchine era sempre più difficile fare le partite in strada, perché bisognava interrompere la partita troppo spesso; per fortuna ci venne incontro Don Bruno che ci permise di fare le partite a fianco della chiesa di Sant’Ignazio a ridosso della casa parrocchiale.

Una sera giocò lui stesso con noi ragazzini e ci divertimmo veramente tanto e si rivelò ai nostri occhi più “umano” di quanto non sembrasse durante la Messa.

Una sera ci invitò tutti quanti a fare la merenda nel suo studio e ci permise di ammirare la sua collezione di minerali che poi ebbi occasione di osservare nuovamente da adulto.

Conservo ancora le mie prime scarpe da calcio “con i tacchetti”, le mitiche “Ascolana” che credo assieme alle “Tepa sport” fossero le più belle di quegli anni; non erano certo come quelle di adesso di mille colori, la scarpa da calcio era nera con qualche striscia bianca senza fronzoli, ad eccezione delle “Diadora”, tutte nere con il logo giallo o verde fluorescente.

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Tra l’altro quando ero nei pulcini e poi negli esordienti il campo in cui ci allenavamo noi giovanotti della Gialeto era lo sterrato de “Su Campu ‘e sa Lua”, che più che in terra era in ghiaino… ricordo ancora che fare la scivolata era da veri temerari e te la riservavi se era l’ultima chance di fermare un avversario; la coscia graffiata rimaneva dolente per settimane.

Durante l’estate a “Su Campu ‘e sa Lua”, per alcuni anni, assieme a tanti altri ragazzini e amici, tra i quali mi piace ricordare Alessio e il compianto fratello Diego (con cui giocavamo assieme in difesa nella Gialeto pulcini prima e esordienti poi; lui mediano col 4 sulle spalle e io terzino destro col numero 2) organizzavamo dei tornei con tanto di calendario ufficiale… fase a gironi e poi eliminatorie in stile Mundial.

Ci si quotava con qualche soldino, che poi andavano alla squadra vincitrice, al capocannoniere e così via; non erano contemplati i calci di rigore e qualche volta le partite si protraevano oltre il ragionevole consentito.

Quando fummo leggermente più grandicelli, l’estate diventava l’occasione per guadagnarsi qualche soldino e si andava alla spasmodica ricerca di “’u meri” che avesse bisogno di manodopera “po’ andai a stegai tammatigasa”, e chi aveva voglia, trovava sempre dove andare; tutti avevano pomodori da raccogliere, erano gli anni in cui la Casar tirava alla grande, con file di trattori lungo la S.S. 196 in ambo le direzioni. Significava svegliarsi prima del sorgere del sole e “spaccarsi” la schiena sotto il sole tutta la mattina; ma a fine campagna qualche soldino in tasca per comprare una t-shirt o una musicassetta lo avevamo.

Un anno spesi quasi tutto in una sola volta… una maglietta “El Charro” comprata da “Collu”… 40.000 Lire… Seu ancora prangendi! Era il periodo dei “paninari” e se non avevi qualcosa di firmato eri uno “sfigato” agli occhi delle “sfitinzie”.

Arrivato nei “giovanissimi” finalmente si giocava stabilmente al “Fausto Coppi” e calpestare il campo in terra battuta era tutta un’altra storia.

Mi riuscì di fare addirittura uno scambio con un mio compagno di squadra; io gli diedi un paio di calzoncini e lui in cambio mi diede un paio di “Puma” a sei tacchetti… strausate, ma io la sera ci dormii quasi abbracciato… le “Puma”, le scarpe di Maradona!

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In quegli anni ovviamente Maradona era il mito di tutti e ricordo che lui era il volto delle campagne pubblicitarie del noto marchio, tanto che noi ragazzini andavamo insistentemente all’”Hobby Sport” per farci regalare il suo poster… Qualche volta ci accontentavano, altre no… come dargli torto col senno di poi? Talvolta eravamo davvero logoranti e “strollicusu”.

Quando fui più grandicello mio papà preferì farmi impegnare di più nella scuola e la mia “brillante” carriera di terzino destro, “alla Facchetti” come amava ripetere il mio allenatore, nelle fila della Gialeto si interruppe bruscamente.

Non credo sia stata una grande perdita… per la Gialeto intendo.

La maggior parte dei miei amici erano atleti, sempre della Gialeto, ma delle due ruote; Stefano, Luca e Diego (tra l’altro affermatosi come Campione Sardo su strada nel 1985), mentre un altro, Massimiliano, era una giovane promessa dell’Atletica Serramanna.

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Il ciclismo appunto, che è stato per anni terreno di strepitose vittorie da parte degli atleti della Gialeto ciclismo, coi vari Bandinu, Putzolu passando per Aldo Medda e appunto le giovani promesse come Diego.

Mia mamma, sin da piccolo, ogni mattina verso le 7:00, prima della colazione, mi mandava, a turno con mio fratello maggiore, a comprare il pane, “’u civraxiu”, al panificio di Bandinu, e mi serviva sempre la signora Camilla.

Ero convinto che mia mamma non sapesse dirmi in italiano il nome del pane da acquistare e io quando arrivavo, dicevo sempre “Buongiorno, mi da un pane grande?”; la signora Camilla, conscia della mia ingenuità di bambino di 7/8 anni, mi sorrideva e rispondeva sempre “Ecco, un pane grande”. Ci andai anche la mattina del 7 gennaio del 1985, già più grandicello, quando vidi per la prima volta la neve… la neve a Serramanna.

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Ho indelebile il ricordo del profumo del pane appena sfornato, caldo caldo; così come ricordo con nostalgia la banconotina con la testa alata delle 500 lire o la faccia di Verdi sulle 1.000 lire o quella di Galileo sulla banconota da 2.000.

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Ai miei tempi era normale che i bambini andassero a fare qualche piccola commissione, fin da piccoli, da soli; come da soli ricordo, andavamo anche alle scuole elementari. Aiutava sicuramente a responsabilizzarci.

Altre volte, non tantissime per la verità, andavo anche a comprare il famoso “coccoi de tziu Dariu” al panificio di Putzolu, poco più avanti di Piazza Gramsci, affianco a tziu Pau, “su ferreri”.

Il ciclismo negli anni che furono, forse era anche più popolare e seguito del calcio, a Serramanna; basti pensare che il campo di calcio principale del paese è intitolato, appunto, al campione delle due ruote “Fausto Coppi”. Pare che in origine, attorno al campo di calcio si volesse realizzare anche un velodromo.

Soprattutto di Diego ricordo le uscite in allenamento con la bicicletta dietro la “Fiat Regata” di suo papà Costantino, così come Luca appresso alla “Fiat Ritmo” di papà Lucillo o Stefano con papà Valentino.

Le risate che facevamo quando andavamo al mare giacché loro avevano le gambe depilate e allora non era come adesso che anzi fa quasi scalpore il contrario.

Erano anni in cui ci si divertiva con poco. Epica fu la pedinata al poeta-cantautore serramannese Omero Congia per riuscire a scroccargli quante più musicassette possibile… come scordarsi delle sue canzoncine orecchiabili fin dal primo ascolto “Pom pom fa la macchinetta… drin drin fa la bicicletta… oh oh ma che bella cosa, il treno che fa tu tu” e tante altre; o gli sfottò alla signora che da Corso Italia, dove abitava, scendeva fino alla stazione dei treni, vestita con un elegantissimo abitino verde smeraldo e una appariscente fascia tricolore a tracolla che andava predicendo ipotizzabili “tribolazioni dell’inferno”.

Altre volte si andava a importunare Marieddu (“su maccu”), che abitava in “su stradoi de Biddasorrisi” e andava imperturbabilmente in giro sulla sua bicicletta con la divisa di “guardia carcere” con tanto di bandoliera e manganello alla cintura.

Ci ritrovavamo soprattutto nel vicinato di Diego, Luca, Alberto, Fabio e Massimiliano, e fino ai primi anni ’90 non era insolito si fermasse qualche macchina di fuori a chiederci “Scusate, sapete dove abita la santa?”, e noi “La santa?”, “Si, Maria la santa, non la conoscete?”, e noi sospirando increduli “Ah, Mariuccia sa sorresa! Si si è qua, nella strada del deposito”.

Incredibile. Era dalla fine degli anni ’70, che a Serramanna si spettegolava di presunti miracoli che un’anziana signora, madre di numerosi figli pare compiesse per intercessione di Bettina Medda, una ragazzina deceduta in un incidente stradale nel 1973 a Villasor, a soli 14 anni.

A casa sua si assiepavano e facevano la fila centinaia di persone e ricordo la lunga fila di auto parcheggiate giù de “su corretoi”, a partire dalla stessa Via Sassari fin sullo slargo di fronte alla bottega di “tziu Elvio”, fin su, quasi nelle immediate prossimità della chiesa di Sant’Ignazio; ricordo anche le prediche di don Bruno Bruno alla Messa della domenica mattina, non certo bonarie nei confronti di questo “fenomeno”.

Oltre la strada del vicinato, spesso si andava in giro per le vie del paese o ci si accontentava di uscire in Piazzetta Matteotti e andare a prendere una pizza al taglio, o un gelato al bar di Giampiero o sedersi a dare un pezzo di pane alle carpe dello zampillo; più tardi quell’espressione la riadattammo a nomignolo per il signor Ignazio della pizzeria del Viale Stazione; Ignazio “pezzo di pane”, ogni tre pizze un succo di frutta in omaggio… Succo di frutta con la pizza… che risate!

Allora non c’erano i telefonini ma c’erano le cabine telefoniche a gettone e ricordo perfettamente quella in Piazza Matteotti e quella vicino alla stazione dei treni, di fronte al negozio di ferramenta… quanti scherzi: “Signora c’è l’acqua in casa sua?” “Si, perché?” “E allora si lavi…!” Tac! Giù la cornetta. Quante risate.

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Devo ammettere che non erano cose bellissime da fare, così come il classico dei classici del suonare i campanelli e scappare… eravamo ragazzi.

Anni in cui la droga dilagava e le raccomandazioni giornaliere dei nostri genitori erano “Non raccogliere siringhe da terra” piuttosto che la più classica “Non prendere caramelle dagli sconosciuti”; che poi ci sarà mai stato qualcuno che davvero regalava le caramelle con la droga?

Ho sempre avuto questo dubbio.

Io e gli amici siamo stati sempre dei bravi ragazzi seppur qualcuno abbia intrapreso talvolta la strada sbagliata, forse per la smania di diventare grande o di voler sembrare grande.

Arrivarono anche gli anni in si cominciava a frequentare “su passillu” e andare su e giù da Piazza Matteotti fino a Piazza Martiri e viceversa, a guardare le ragazzine.

Erano i tempi della Gelateria “La Veneta”, vero punto di ritrovo di tutti i ragazzini serramannesi, così come la sala giochi. Chi non ricorda “gli spaghetti” della gelateria presi la domenica sera di ritorno dal Poetto in cui si andava rigorosamente col pullman di Pani?

Tra la 4° e la 5° fermata del Poetto c’era tutta la meglio gioventù di Serramanna.

Più in là c’erano i locali per i ragazzi grandi, la Birreria “BlueWay” e più in là ancora, in “su stradoi ‘e Samassi”, “Il Babilonia” frequentato da personaggi, perlomeno all’apparenza, di dubbia reputazione e moralità; ricordo una rissa epica che credo fu la causa che portò alla chiusura definitiva del locale.

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Noi ragazzi non eravamo certo habitué  dei locali dei grandi, ma ricordo qualche puntatina al “Gorky Club” (dove prima era lo “Chat Noir” e dopo si sarebbero susseguiti i vari “Dal Baffo” prima e “da Bastardo e Pablo” poi) nell’attuale Viale Sant’Ignazio o al Midnight di Via Piemonte.

Pian piano si cercava di andare alla conquista delle ragazze dei paesi vicini e provare così l’esperienza dell’autostop che talvolta riservava delle avventure che sarebbero poi rimaste impresse nella nostra memoria; tutte a lieto fine per fortuna, ma che a ripensarci col senno di poi forse potevano rivelarsi un tantino pericolose. Meta preferita, Villasor.

Una volta con l’amico Raffaele saltammo giù da una “Fiat 128” in corsa che si dirigeva verso la campagna anziché verso il paese…

Altre volte andavamo col “Sì” di Massimiliano, passando però per la strada sterrata “de is’argiddas” per evitare eventuali posti di blocco, giacché non vi era ancora l’obbligo del casco, ma il divieto di salirci in due si.

Capitava di andarci anche con le biciclette e ci successe addirittura di prendere una multa poiché avevo la lampadina della luce posteriore fulminata… conservo ancora il verbale dei carabinieri.

Anche nei paesi vicini c’era “su passillu”, e addirittura ad Assemini c’era anche la mattina e quando il nostro amico Stefano, il più “vecchio” della cricca prese la patente andavamo fin là alla domenica mattina… Peccato si sia persa questa usanza un po’ dappertutto.

Purtroppo le vicende della vita mi hanno portato a vivere lontano dal mio paese natale, ma porto nel cuore il suo ricordo, i suoi profumi, i suoi guai…

Serramanna non è certamente il luogo migliore del mondo in cui vivere, ma è certamente il luogo in cui a me piacerebbe vivere.

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