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L’importanza de sa limba sarda al giorno d’oggi

di Davide Batzella Letto 2.229 volte0

di Manuela Orrù

O sardu, si ses sardu e si ses bonu
sempre sa limba tua apas presente:
no sias che isciau ubbidiente
faeddende sa limba de su padronu.
Sa nassione che peldet su donu
de sa limba iscumparit lentamente,
massimu si che l’essit dae mente
in iscritura che in arrejonu.
Sa limba de babbos e de jajos nostros
no l’usades pius nemmancu in domo
ca pobera e ca ruza la credeis.
Si a s’iscola no che la jughides
po la difunder mezus, dae como
sezis dissardizende a fizos bostros.
Remundu Piras

Profetico il poeta, del resto è uno dei suoi compiti quello di vedere oltre il presente, e qui ciò che lo scrittore augurava, ed esortava a fare, era proprio il contrario di ciò che è successo, cioè non abbandonare la lingua materna, la lingua dei nostri ajajus. A distanza di quarant’anni, la poesia è del 1979, invece è successo proprio ciò che il poeta temeva, i sardi si sono dessardizzati, hanno abdicato alla lingua dei Babbai Mannus e come “isciaus”, schiavi, hanno abbracciato la lingua dei padroni e sono passati dal parlare “l’italiano proceddino”, cosiddetto l’italiano sardizzato, a parlare oggi, miseramente e con grande tristezza perché veramente ridicolo, il “sardo proceddino” cioè il sardo italianizzato.

Gli studiosi della lingua sono oggi arrivati a promuovere delle ricerche per salvare le parole del sardo che stanno sparendo, infatti si sta portando la nostra lingua sull’orlo dell’estinzione, sicuramente oggi ad un impoverimento lessicale che non fa ben sperare per il futuro. Le parole che usiamo spesso sono parole italiane cui aggiungiamo la “u” finale o vi anteponiamo l’articolo “su” e “sa”, come nel caso di su sugu, sa zanzara, su basilicu, sa sabbia, su pollu. Senza parlare delle difficoltà che incontriamo a fare un discorso completo, un ragionamento con argomentazioni senza usare una parola di italiano.

Veramente oggi persone capaci di questo ne conosco pochissime. Quando ero bambina, negli anni sessanta, tanti genitori, convinti da una mentalità che voleva che per imparare bene l’italiano non si dovesse parlare sardo, ci hanno impedito di parlare la nostra lingua, ci hanno mutilati, negandoci, purtroppo in buona fede, una ricchezza non riconosciuta, un tesoro ridicolizzato di cui ci si vergognava, chi parlava sardo era considerato “grezzo” perché “ruza” era sa limba e l’accento che la distingueva. Della situazione attuale siamo tutti responsabili, noi sardi e i nostri governanti, ai quali da decenni è stato chiesto un intervento legislativo importante che permetta di introdurre lo studio del sardo nelle scuole, nell’ottica prospettica che il sardo lo dobbiamo tramandare alle nuove generazioni per continuare a farlo vivere. Vivere… forse oggi e nel futuro il sardo potrà solo sopravvivere, se non acquistiamo la consapevolezza di ciò che è e di ciò che perderemo non parlandolo più.

La frase di Stevane Cherchi riassume la sostanza del discorso, parlare il sardo, chenza bregungia, ha sempre dato più spirito e corpo alle nostre parole, più cuore e sostanza ai nostri pensieri:
Ant nau ca unu pòpulu chi perdit sa lìngua acabat de essi pòpulu e ca dònnia pòpulu est cun sa lìngua sua etotu, sa prus aina manna de s’identidadi, chi fraigat su sentidu suu de su mundu e de sa vida, diferenti de dònnia àtera cultura. Seus a mesu tretu, depeus detzidi intra de lassai de essi pòpulu sperdendi-sì in d-un’àteru pòpulu e un’àtera cultura, o de si pinnicai apari torrendi-sì a cuberai su chi si fait sardus in su mundu. Depeus sciri a chini seus po no si fai apetigai prus, ca pruschetotu po cussu ant circau de si-ndi leai sa lìngua nosta.

Si dice che un popolo senza lingua non possa essere definito tale: i sardi devono decidere se “sperdersi” in un altro popolo e in un’altra cultura o se recuperare ciò che li identifica nel mondo e la lingua sarda è lo strumento che può ricordare loro chi sono.”

Da alcuni anni scrivo in sardo, per farlo nella maniera migliore ho cominciato a leggere in sardo, a cercare i libri scritti in sardo e mi si è aperto un mondo ricchissimo. I romanzi sono pochi, è vero, ma abbiamo una produzione poetica incredibile per contenuti e quantità. Infatti per il sardo è normale esprimersi in poesia e rima, basti pensare ai mutetus, ai goccius, a is cantadas, a is pregadorias, noi stessi a Serramanna abbiamo la frase “a di ponni cantzoni” quando si voleva immortalare un fatto o una persona e certo sa cantzoni doveva essere in rima.

E allora anche quando scriviamo, per esempio sui social, cominciamo a farlo in sardo, all’inizio ci sembrerà strano, faremo un sacco di errori, ma almeno stiamo dando valore alla nostra identità, ad un passato che non vuole morire, a tutti coloro che sono venuti prima di noi e per i quali il sardo era la lingua materna.

Poita cussu est sa lingua sarda, est sa lingua de Sardigna e chi oi si preneus sa ‘ucca de fueddus de fieresa, ddu depeus nai e zerriai in sa lingua nostra, ca essi sardus bolit nai innantis a totu a chistionai su sardu, asinnuncas is artrus cumenti d’iant podi cumprendi ca seus genti de cust’isula antiga e trumentada? Il motto di un’associazione del nostro paese dice “toccai a baddai”, e io parafrasandola aggiungo “toccai a fueddai su sardu” perché, per dirla con le parole del professore Giovanni Lilliu, “sa lingua est comenti unu fogu de libertadi chi no si depit istudai mai”.

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